l’ultima mail di Mario Palmaro
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La sera ci sentimmo per commentarlo. 
Chiamò Mario, e fu una telefonata dolorosa perché era evidente che, da 
questa parte del Cielo, gli ultimi granelli di sabbia stavano scorrendo 
nella clessidra. Fin da quando si scoprì il male che l’avrebbe avuta 
vinta sul suo fisico, nessuno si era illuso di poter capovolgere quella 
clessidra una volta di più. Ma in certe amicizie, forti come vincoli di 
sangue, sono proprio la palese impossibilità di compiere un gesto 
ulteriore, l’incapacità di forzare il destino a far male. Prima 
dell’abbandono al Signore, la natura dell’uomo ferita dal peccato, forse
 si lascia tentare ancora una volta dall’idea di fare da sola. O, forse,
 chiede di provare dolore per redimersi almeno con un po’ di merito. 
Poi, tutto si compie, e nella vicenda terrena di Mario tutto si compì la
 sera di quattro giorni più tardi, dopo il canto del “Salve Regina”.
Le ferite, anche quando si chiudono, 
lasciano segni attraverso cui il dolore trova meno resistenza, anzi 
segue quasi una guida sicura per raggiungere i luoghi dell’anima, del 
cuore e della testa in cui sa di poter fare più male. Per questo, ci 
sono voluti due anni prima che riuscissi ad aprire nuovamente quel file 
in cui Mario aveva evidenziato in rosso la sua parte del nostro ultimo 
articolo. Non ne sono passato indenne, perché lui è lì, sul letto in cui
 sta per morire e parla del peccato, della morte e della vita eterna. 
Parla con la chiarezza di chi si trova sul limitare del tempo, con 
dolore ma serenamente, e dice:
I veri nodi che hanno imbrigliato la
 teologia cattolica e che l’hanno soffocata sono stati l’abolizione del 
peccato e la separazione tra fede e sacramenti. Il sacramento è, 
insieme, vincolo e mezzo per proteggere le creature dal peccare. Ecco 
qui il tema fondamentale, dimenticato e negletto: il peccato. Ecco lo 
scandalo, la vergogna senza la quale l’uomo è incomprensibile. Va bene 
il mistero pasquale, va bene la resurrezione, va bene il trionfo della 
pietra rotolata. Ma non esiste alcuna garanzia che le nostre anime siano
 preservate dalla morte ineluttabile. Il peccato porta con sé il mistero
 della dannazione eterna.
Ed ecco qui spuntare nella storia, 
insieme all’incarnazione, il sacramento, il mistero che è nello stesso 
tempo fondamentale per salvare l’uomo dalla sua condizione di peccatore.
 Una chiesa senza sacramenti è semplicemente impensabile, una terra di 
nessuno, o se va bene un ospedale da campo, dove l’uomo si salva da sé.
La discussione in corso intorno alla
 riammissione delle coppie divorziate risposate è estenuante, per certi 
versi assurda. La vera domanda è molto più semplice: da che cosa l’uomo 
deve salvarsi? Ma da che cosa si deve salvare, se si predica o si lascia
 intendere che l’inferno non esiste o, se esiste, è vuoto? 
Cristo non si è fatto crocifiggere 
per salvare gli uomini dalla guerra, dalla povertà, dall’invidia, dal 
matrimonio andato male, dalla tristezza. Lo ha fatto per salvarli dalla 
dannazione eterna. E i sacramenti sono il mezzo per uscire da questa 
terribile malattia.
Gregorio di Nissa, in un’operetta che si intitola Fine, professione e perfezione del cristiano,
 al capitolo sulla “Virtù della pazienza”, sembra tratteggiare il 
ritratto di quest’uomo che sarebbe morto nella sua stessa fede 
diciassette secoli dopo di lui. Per conformarci al modello di Cristo, 
spiega San Gregorio “dobbiamo, nella nostra imitazione della bellezza, 
usare per quanto è possibile puri i colori delle virtù mescolandoli tra 
loro ad arte, in modo da diventare immagini dell’Immagine e da 
riprodurre la bellezza originaria attraverso un’imitazione il più 
possibile assidua. (…) Se poi occorre distinguere anche uno per uno i 
colori grazie ai quali si realizza l’imitazione dell’Immagine, diremo 
che un colore è rappresentato dall’umiltà. (…) Un altro colore è 
rappresentato dalla magnanimità, che in così larga misura rappresenta 
l’immagine del Dio invisibile. (…) Allo stesso modo, si possono vedere 
tutte le altre virtù nell’immagine originaria di Dio: chi la guarda può 
abbellire in modo evidente il proprio aspetto e diventare anch’egli 
un’immagine del Dio invisibile, delineata con la virtù della pazienza”.
Il coraggio, la lucidità, la tenacia, 
che persino certi avversari sono stati costretti a riconoscergli, negli 
ultimi tempi sono stati sublimati e purificati nella pazienza. Perché 
pazienza viene da patire. Scrive in proposito Sant’Agostino: “È risaputo
 che la pazienza retta, degna di lode e del nome di virtù, è quella per 
la quale con animo equo tolleriamo i mali, per non abbandonare con animo
 iniquo quei beni per mezzo dei quali possiamo raggiungere beni 
migliori. Pertanto chi non ha la pazienza, mentre si rifiuta di 
sopportare i mali, non ottiene d’essere esentato dal male, ma finisce 
col soffrire mali maggiori. I pazienti preferiscono sopportare il male 
per non commetterlo piuttosto che commetterlo per non sopportarlo; così 
facendo rendono più leggeri i mali che soffrono con pazienza ed evitano 
mali peggiori in cui cadrebbero con l’impazienza. Ma soprattutto non 
perdono i beni eterni e grandi, quando non cedono ai mali temporanei e 
di breve durata poiché, come dice l’Apostolo, i patimenti del tempo 
presente non meritano d’essere paragonati con la gloria futura che si 
rivelerà in noi. Egli dice ancora: la nostra sofferenza, temporanea e 
leggera, produce per noi in maniera inimmaginabile una ricchezza eterna 
di gloria”.
In un mondo in cui anche tanti cattolici
 non sanno più come si possa ben vivere, i cristiani esemplari come 
Mario Palmaro ci dicono che lo si apprende solo con il ben morire.
Alessandro Gnocchi
Sia lodato Gesù Cristo
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